A Palermo la taverna è…

A Palermo la Taverna (latino taberna) è luogo “ove si beve pagando, talvolta trovasi da mangiare”. E’ termine vecchio di oltre duemila anni. Non furono locali malfamati come si è indotti a credere giacché ben frequentati e concentravano anche funzioni sociali oggi assolte ad esempio da bar e paninerie. A Palermo le taverne furono celebri e celebrate fin dal XIII secolo.

L’abate Meli e il professore Pitré ricordano quella della Za Sciaveria. Della celeberrima “Musica d’Orfeo” (per il murales che la decorava) resta solo il nome a una traversa di corso dei Mille. In quella via abitarono i Sinatra prima di trasferirsi negli USA dove nacque il piccolo Frank. Fu la taverna della Za Filiciuzza a dare il nome alla zona del Policlinico; pure tavernara fu la Za Olivuzza che stava tra il verde di piazza Principe di Camporeale, che fino al 1870 si chiamò “Piano dell’Olivuzza”. Ci si andava a passare la domenica tra tanto verde, aria buona, polli ruspanti, e vino buono. Fuori le mura cittadine, dopo Romagnolo, c’era la taverna della “Sbannuta”, bandita in italiano, sol perché non rifiutò ospitalità a qualche latitante. La ‘Ngrasciata, una “scupariota”, stava alla Tonnarazza davanti al mare. A due passi da via Castro c’era la Perciata, due porte ancora esistenti per permettere di seminare l’avversario in caso di bisogno: la frequentò Cagliostro.

La più originale fu quella ricordata dal Meli come “chidda di li Casciara, cchiù muderna”. Era alle spalle della Cala, frequentata da marinai e mercanti sbarcati da ogni angolo del Mediterraneo. Gestore fu Giovanni Maria Bassanelli, che accanto alle scansie con pesci, salsicce e conigli, offriva tanti libri bene ordinati. Mise assieme cibo e cultura. Dio l’abbia in gloria.

Il menu fu la vittuària. Classico il“venerdì baccalà-sabato trippa” entrato nel linguaggio popolare. La pasta fu sempre il bucatino saliàtu cioè condito con un poco di cacio messo con la stessa parsimonia con cui si sparge il sale. Spesso sostituito da una frocia, nostrana “omelette soufflée”. I piatti più economici? Uova duri e fave a cunigghiu! La carne fu: trippa, polpette, spezzatino e bollito; in inverno s’aggiungeva la salsiccia. Il pesce secondo stagione e cioè sarde e sgombri a gennaio/febbraio, vuopi (boghe) a marzo, triglie ad aprile, tonno fino a fine giugno. In estate c’erano tanti pesci a buon mercato, per riprendere in autunno con lampughe (capùni) e fanfari. Non mancò in estate la “caponatina”e la “parmiciana” servita, giustamente in teglia, per meglio ricordare la persiana a cui fa riferimento la nostra lingua. Abbondarono i contorni di patate che fanno fare “bona fiùra” riempiendo il piatto, ma non furono da meno le insalate invernali: celebre il levasdegnu fatto di finocchi e ravanelli in grado di agevolare una sana digestione.

Gaetano Basile, giornalista e storico